Esce il 24 maggio, insieme alle rose, “Fiorigrotta”, il nuovo album di Luca
Rossi. E già nel titolo ritroviamo gli accostamenti onirici e immaginifici di
questo mediterraneo Chagalle del tamburo.
Il punto di partenza di questo itinerario che si
presenta come un delicato omaggio alla grande tradizione della musica
partenopea, è il suo quartiere d’adozione, quel fuori-grotta evocatore di
cemento, speculazione edilizia e stadio, che viene presto ingentilito
dall’autore, il fuori rinverdisce e si fa fiori; Fiorigrotta, racconta Luca Rossi, nasce in un improbabile parco
giochi sorto dall’iniziativa di alcuni cittadini di buona volontà, che hanno
sottratto un po’ di spazio ai rifiuti urbani buttati a casaccio nel quartiere. Fiorigrotta ha il volto di un giostraio,
che tutti i giorni si arma di santa pazienza, taglia le erbacce e costruisce
fioriere colorate con vecchi pneumatici, piantando colori in mezzo al cemento.
Sette i brani in questo disco, sette fiori colorati, forti
della tradizione che li ha resi celebri nel mondo e delicati perché ridotti
all’essenziale dall’autore. In tempi di sensazionalismo, confezioni
accattivanti e ostentazione a tutti i costi, la sobrietà di questi
arrangiamenti privi di orpelli risulta davvero rivoluzionaria; talmente vivi i
pezzi, da imporsi nella loro scarna essenzialità: si pensi a “ ’O surdato ‘nnammurato”
dove la sola tammorra è accompagnata dalla chitarra di Gnut, a “Vesuvio” in cui
la voce graffiata di Rossi si intreccia a quella melodiosa di Roberto Colella,
o ancora a “Tammurriata” con l’apertura affidata al canto di Loredanna
Carannante.
Come in tutti i lavori di Luca Rossi amore,
devozione, attaccamento alle radici si avvicendano senza soluzione di
continuità e questi brani classici, da tutti conosciuti, sembrano assumere un
aspetto inedito e si fanno inno, preghiera, ringraziamento.
Ad arricchire
la narrazione, alcuni inserti registrati “sulla strada”: dal chiassoso vociare
del mercato di quartiere, coro spontaneamente musicale, che è Napoli, ma è
tutte le città del Mediterraneo, alle invocazioni dei questuanti per la Madonna
dell’Arco, riuniti prima di Pasqua nei rioni popolari, sotto ai balconi a
raccogliere offerte.
Le voci ispirate di Marcello Colasurdo e Marzouk Mejri
chiudono il racconto con un’inedita preghiera: “Signora acalate stu panaro e
dint ‘nce mettite suonn’e speranze”.
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