Sinceramente non capisco, davvero non capisco perché i Comuni coinvolti in questo pericolosissimo scempio non facciano fronte per dar vita all'istituzione del Parco dei Tifatini.
Sono pronta, nella mia veste di Presidente del Club Unesco, a costruire percorsi insieme a chi ha il buon senso di voler tutelare la salute dei cittadini, la salute delle montagne, il paesaggio (che non è solo 'visione'), a cominciare dalle Piazze del Sapere.
Prof. Jolanda Capriglione
Presidente del Club Unesco di Caserta
Seconda Università di Napoli
Tifare Tifata, per quei colli idea
di recupero
martedì, 22
aprile, 2014
di Nando Astarita
Per decenni abbiamo guardato altrove e non ci siamo accorti che ce le
stavano rosicando tutte, le nostre colline. Così oggi, appaiono tristi i
Tifatini, con le loro profonde ferite che non rimargineranno mai più, con
interi fianchi spariti insieme alla vegetazione ed alla fauna che vi trovava
rifugio. E pensare che sono stati distrutti per estrarre pietrisco, servito a
sua volta, a distruggere la nostra città, soffocandola col costruire
speculativo. Un delitto ambientale irreparabile, per l’arricchimento notevole
di pochi, con assenza di controlli e divieti, come ha dimostrato uno scandalo
alcuni anni fa, e che continua tutt’oggi, malgrado l’ impegno di benemerite
associazioni di cittadini che invano cercano di coinvolgere chi dovrebbe e
potrebbe porvi rimedio. Ovviamente, le cave esistono da quando abbiamo cominciato
a costruire con pietre. I romani, per lo splendido anfiteatro di Capua,
cavarono pietre dalla vicino cava di Santo Jorio e per la nostra reggia, si
trasse tufo da San Nicola e San Benedetto. Ma quel cavare s’integrava alla
natura, mai era stato così sfacciato e dannoso. Queste cave, infatti, hanno
abbruttito il panorama cittadino, hanno modificato il microclima esistente,
rendono insalubri i nuovi ospedali e hanno reso invivibile, perfino alle piante
sui balconi, buona parte della zona pedecollinare, che altrove è ambita per
ameni insediamenti abitativi.
Eppure a questi Tifatini tanto dobbiamo. “La lenta opera dei corsi d’acqua congiunta all’azione dei vulcani colmò il basso fondale marino che s’estendeva ai piedi dell’Appenino” e quindi creò un
Eppure a questi Tifatini tanto dobbiamo. “La lenta opera dei corsi d’acqua congiunta all’azione dei vulcani colmò il basso fondale marino che s’estendeva ai piedi dell’Appenino” e quindi creò un
fertilissimo terreno. Ma fu solo grazie alle colline Tifatine, che
fermano i venti freddi settentrionali, che si creò il microclima che rese
questa terra così feconda per l’agricoltura. Grazie a queste colline che
restituivano, inoltre, l’acqua piovana quando la terra cuoce, si crearono vasti
campi di spighe e nacque il nome “Campania”. Formano, i Tifatini, anche
bellissime valli che, un tempo rigogliose, davano comodo rifugio ad ogni tipo
di animale selvatico, assicurando così facile caccia. Fagiani, pernici, starne,
quaglie, tortore, oche selvagge e tanti altri ancora volatili. Ed a terra,
cinghiali, cervi, caprioli, lepri e volpi.
Insomma, se la Campania fu chiamata “Felix” merito sicuro si deve anche ai monti Tifatini. E la bontà di questa terra certo non sfuggì agli antichi Romani che investirono molto nei loro Dei, arricchendo la piana ed i colli di templi per ringraziarli di tanta munificenza. Nel piano, l’odierna Casapulla era forse tempio d’Apollo, Casagiove l’antico “pagus Iovis”, Musicile (frazione di Portico) il tempio delle Muse, e quello a Marte era a Martianisium, quello d’Ercole nell’omonimo paese e un tempio a Venere e alle Grazie a Grazzanise ed altri ancora. Ma templi non mancavano anche sugli stessi Tifatini: nella parte occidentale, boscosa e ricca di selvaggina, fu eretto, con preziosi materiali, un tempio a Diana (Tifatina), su cui poi sorgerà la Chiesa di Sant’Angelo in Formis. Al tempio, fu annesso un sacro bosco ed un Circo dove in onore della Dea gareggiavano le quadrighe. Poco lontano, per gli abbondanti raccolti della sottostante pianura, fu eretto un tempio a Cerere. Ed ancora, nella parte collinare più meridionale, fu eretto un tempio a Giove Tifatino, poco sopra un antico villaggio che diventerà Casolla. Su quel tempio fu poi edificata l’abbazia di San Pietro ad Montes, che ne porta tracce tuttora.
Tuttavia, per la vicinanza delle due floridissime e potenti città di Capua e Galazia, questo territorio non fu occupato per secoli, se non da eserciti di passaggio, come quello d’Annibale. Solo i Longobardi, infine, edificarono su questi colli una città che, per l’asprezza della salita, fu detta Casa Hirta e che sarà poi popolata dagli esuli delle distrutte città di pianura, ed ancora edificarono, all’estremo loro limite orientale, l’eremo di San Michele (loro santo protettore) ed il castello di Maddaloni.
Oggi, queste colline sono aspre e corrotte ma, non moltissimo tempo fa, erano ricoperte, nella parte più bassa, di ulivi, ciliegi, fichi e viti oltre che di tante erbe medicinali come mirto, ruta, pimpinella, menta per poi finire, nella parte più alta, ricoperte di boschi. E così, da esse spirava una aria salubre e soave ch’era un piacere per il corpo e lo spirito. Di tutto ciò, oltre che dell’abbondante selvaggina, certo s’innamorò anche un re, Carlo di Borbone, al punto che scelse di viverci.
Oggi, questa bellezza è perduta e lo sguardo, dal finestrino dell’auto o dal balcone di casa, sfugge colpevole alla vista di quell’abbraccio di monti sterili.
Ma allora perché non provare a cambiare? Coinvolgiamo i giovani, i nostri bambini. Per una volta, invece del solito passeggio, andiamo in collina, con qualche chilo di terra ed un piccolo arbusto. Insegniamo ai bambini a creare, con qualche pietra, un invaso per quella terra e piantiamoci la nostra speranza.
Creiamola noi la premessa per piante più grandi. Insomma, invece di rimpiangerli soltanto, proviamo ad amarli in concreto i nostri Tifatini, loro non ci deluderanno. Intanto, non avremo deluso noi stessi con la nostra apatia, con la nostra triste e codarda rassegnazione.
Ed ecco una indicazione concreta: in una foto allegata, si vede l’antica mulattiera che da San Pietro ad Montes porta a Casertavecchia. Ebbene, piantiamo i nostri arbusti ai bordi di quella via millenaria. Costruiremo un “sentiero verde” che, a vederlo anche da lontano, ci condurrà a maggiore speranza per queste nostre colline.
Insomma, se la Campania fu chiamata “Felix” merito sicuro si deve anche ai monti Tifatini. E la bontà di questa terra certo non sfuggì agli antichi Romani che investirono molto nei loro Dei, arricchendo la piana ed i colli di templi per ringraziarli di tanta munificenza. Nel piano, l’odierna Casapulla era forse tempio d’Apollo, Casagiove l’antico “pagus Iovis”, Musicile (frazione di Portico) il tempio delle Muse, e quello a Marte era a Martianisium, quello d’Ercole nell’omonimo paese e un tempio a Venere e alle Grazie a Grazzanise ed altri ancora. Ma templi non mancavano anche sugli stessi Tifatini: nella parte occidentale, boscosa e ricca di selvaggina, fu eretto, con preziosi materiali, un tempio a Diana (Tifatina), su cui poi sorgerà la Chiesa di Sant’Angelo in Formis. Al tempio, fu annesso un sacro bosco ed un Circo dove in onore della Dea gareggiavano le quadrighe. Poco lontano, per gli abbondanti raccolti della sottostante pianura, fu eretto un tempio a Cerere. Ed ancora, nella parte collinare più meridionale, fu eretto un tempio a Giove Tifatino, poco sopra un antico villaggio che diventerà Casolla. Su quel tempio fu poi edificata l’abbazia di San Pietro ad Montes, che ne porta tracce tuttora.
Tuttavia, per la vicinanza delle due floridissime e potenti città di Capua e Galazia, questo territorio non fu occupato per secoli, se non da eserciti di passaggio, come quello d’Annibale. Solo i Longobardi, infine, edificarono su questi colli una città che, per l’asprezza della salita, fu detta Casa Hirta e che sarà poi popolata dagli esuli delle distrutte città di pianura, ed ancora edificarono, all’estremo loro limite orientale, l’eremo di San Michele (loro santo protettore) ed il castello di Maddaloni.
Oggi, queste colline sono aspre e corrotte ma, non moltissimo tempo fa, erano ricoperte, nella parte più bassa, di ulivi, ciliegi, fichi e viti oltre che di tante erbe medicinali come mirto, ruta, pimpinella, menta per poi finire, nella parte più alta, ricoperte di boschi. E così, da esse spirava una aria salubre e soave ch’era un piacere per il corpo e lo spirito. Di tutto ciò, oltre che dell’abbondante selvaggina, certo s’innamorò anche un re, Carlo di Borbone, al punto che scelse di viverci.
Oggi, questa bellezza è perduta e lo sguardo, dal finestrino dell’auto o dal balcone di casa, sfugge colpevole alla vista di quell’abbraccio di monti sterili.
Ma allora perché non provare a cambiare? Coinvolgiamo i giovani, i nostri bambini. Per una volta, invece del solito passeggio, andiamo in collina, con qualche chilo di terra ed un piccolo arbusto. Insegniamo ai bambini a creare, con qualche pietra, un invaso per quella terra e piantiamoci la nostra speranza.
Creiamola noi la premessa per piante più grandi. Insomma, invece di rimpiangerli soltanto, proviamo ad amarli in concreto i nostri Tifatini, loro non ci deluderanno. Intanto, non avremo deluso noi stessi con la nostra apatia, con la nostra triste e codarda rassegnazione.
Ed ecco una indicazione concreta: in una foto allegata, si vede l’antica mulattiera che da San Pietro ad Montes porta a Casertavecchia. Ebbene, piantiamo i nostri arbusti ai bordi di quella via millenaria. Costruiremo un “sentiero verde” che, a vederlo anche da lontano, ci condurrà a maggiore speranza per queste nostre colline.
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