Erano le 16:15 di lunedì 7 giugno 2010 quando partii da
Napoli per recarmi a Casal di Principe per incontrare i genitori di don Peppe
Diana: il pensiero di entrare in un pezzo della sua vita, tra le sue cose, la
sua gente, mi metteva in uno stato di strana agitazione misto a torpore.
Mi accolse il fratello Emilio che mi fece strada e, mentre
attraversavamo il cortile per giungere alle scale che ci avrebbero condotto in
casa, quel torpore iniziale si trasformò in un senso di pace e tranquillità:
ero emozionato, felice. Mi accomodai in soggiorno e cominciammo a dialogare con
i suoi cari: nonostante fossero passati 16 anni dalla tragica scomparsa di
Pinuccio, come erano soliti chiamarlo in famiglia, ne parlavano come non fosse
mai andato via, come se fosse ancora lì presente, a rincuorarli, a regalare
loro un sorriso nei momenti di buio e smarrimento. Era con noi anche in quel
momento, mentre leggevo tra le sue carte e sfogliavo album di ricordi felici:
più che il parroco, percepivo l’uomo che era stato don Peppe, con le umane
fragilità e, allo stesso tempo, con la forza d’animo e il coraggio che lo
resero punto fermo, faro ispiratore e sostegno per molti dei suoi concittadini:
l’amore, la speranza e la fiducia nel prossimo, nel cambiamento, nella
rinascita erano le premesse su cui don Peppe Diana tracciava il suo cammino.
Chiesi alla madre a che età Pinuccio espresse il desiderio
di diventare prete e lei, sorridendo con gli occhi lucidi mi disse che aveva
solo 10 anni e prese i voti a meno di 24 anni: tanto forte era la vocazione che
sentiva, tanto grande il desiderio di essere una guida e un sostegno per gli
altri.
Mentre parlavamo notai che c’era anche un’altra persona, una figura
alta e silenziosa: era Augusto di Meo, l’uomo che fu testimone della morte di
don Peppe Diana. Lo pregai allora di raccontarmi di quella mattina, di quel
triste giorno e lui cominciò a rievocare frammenti lontani, ma ancora nitidi
nella sua mente, che quasi sembrava di riviverne ogni istante: erano entrambi
in sagrestia, pronti per la messa delle 7:30 in onore di San Giuseppe;
parlavano preoccupati della violenza che aumentava nelle strade, della paura,
dei crimini che ogni giorno e ogni notte si consumavano, tra sangue e spari,
come fosse una cosa normale. Don Peppe, consapevole della gravità della
situazione, disse che bisognava pregare molto, moltissimo. Si presentò a quel punto
il sagrestano accompagnato da una persona che chiese chi fosse don Peppe Diana.
Augusto mi disse che non capì se ci fu un mezzo cenno di mano o di capo da
parte di don Peppe, ma partirono subito degli spari che colpirono mortalmente
il prete lì nella sua Chiesa, nella sua casa.
Erano circa le 7:15 del 19 marzo 1994.
Don Peppe Diana era un giovane prete, un uomo semplice e onesto, pieno
di vita, sempre pronto ad affrontare le difficoltà con un sorriso e una fede
incrollabile. Amava la sua gente, i giovani, che cercava di avvicinare alla
cultura, ad interessi costruttivi affinché non si perdessero; cercava di
regalare loro una possibilità di riscatto sociale, di vita vera, seminando
nelle loro giovani menti e nei loro teneri cuori il senso di giustizia. Nelle
sue omelie, occasione di testimonianza coraggiosa, cercava di arrivare dritto
alla coscienza della gente, e degli stessi parroci che invitava a fare
altrettanto. Nel 1991 scrisse infatti una lettera dal titolo emblematico “Per
amore del mio popolo non tacerò”, un vero e proprio testamento di vita in cui
chiedeva a tutti un impegno civico contro la camorra.
Don Peppe dava fastidio, era un problema e andava eliminato.
La sua morte dovrebbe far riflettere, dovrebbe scuotere gli animi,
le coscienze, perché non può diventare normalità uccidere un essere umano, che
sia un uomo comune o un uomo di Dio; non può diventare abitudine vedere la
morte di qualcuno e tacere. La camorra, come la mafia e ogni altra forma di
criminalità organizzata, è un cancro maledetto e le anime di chi ne è infetto
marciscono, diventano nere e torbide, come le acque di una palude putrida dal
tanfo nauseabondo. Spesso sono le anime deboli ad esserne preda, quelle facili
da accattivare, ma non è così che si dimostra forza e coraggio, non diventando
esseri spregevoli, arroganti, violenti… il crimine non rende mai liberi: è una
trappola mortale, è un imbroglio, un miraggio.
La vera ricchezza e la vera forza si palesano nel coraggio di chi
dice No! Di chi rifiuta una vita del genere, di chi combatte l’illegalità, di
chi crede in un futuro migliore, in un percorso di civiltà lontano da paure e
incertezze, forti del sostegno dell’unione, della condivisione a beneficio di
tutti. Non è impossibile: don Peppe Diana ci credeva e tutti noi dovremmo
imparare a fare altrettanto, per non rendere vana la sua vita, il suo messaggio,
la sua morte.
On. Antonio DEL MONACO
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